Shoah, il giorno della memoria. Per non dimenticare


Salvino Cavallaro – Già, per non dimenticare. Spesso usiamo questa frase per significare l’importanza della memoria, del ricordo di fatti e accadimenti che hanno segnato la storia dell’uomo nel mondo. E per antonomasia, quando si parla, si ascolta o si scrive per non dimenticare, sollecitando la memoria legata all’anima di ognuno di noi, ecco che il pensiero corre veloce alla Shoah. “Ogn’anno il 27 gennaio…..”. Un appuntamento importante con la memoria, il ricordo dell’Olocausto. Un qualcosa che ancora oggi lascia ferite profonde soltanto al pensiero di come l’uomo abbia potuto permettere a se stesso una così aberrante ferocia verso il genere umano. Il genocidio del popolo ebraico, uccisioni e torture di donne, bambini, vecchi, da parte della Germania Nazista e dei suoi alleati. E’ la pagina più brutta e angosciante che la storia del mondo abbia scritto negli annali dell’esistenza umana. Altre guerre e altri fatti tremendi si sono succeduti, ma la Shoah resta l’emblema eclatante della cattiveria umana che si spinge oltre ogni limite. Con il termine Shoah fu ufficialmente indicato lo sterminio degli ebrei da parte dei nazisti tedeschi. Si tratta di un giorno particolare che non può passare inosservato e lasciarci insensibili. Questo non è davvero possibile per noi, per i nostri figli e per le generazioni che verranno. Noi che ci occupiamo di sport, che scriviamo di calcio e delle sue vicende quotidiane, ci sentiamo coinvolti nel partecipare attivamente al pensiero verso una storia che ha segnato sicuramente la pagina più aberrante della genesi dell’uomo. C’è una frase che ha colpito la nostra sensibilità di giornalisti sportivi: “Lì, in quel luogo di morte e di sterminio, c’era chi credeva che i valori dello sport dovessero comunque vivere anche nell’orrore”. Ci sono tante testimonianze che hanno colpito la nostra anima, una fra queste è la storia di Ferdinando Valletti, un dirigente d’azienda e poi calciatore che, nel campionato 1942’43 giocò come mediano nel Milan. Nel 1944 collaborò alla realizzazione dello sciopero all’Alfa Romeo e fu subito arrestato. Inviato al carcere di San Vittore è stato poi deportato, prima a Mauthausen e di seguito a Gusen. “ Ho giocato in prima squadra nel Milan come mediano” disse Valletti ai nazisti tedeschi, i quali, dopo essersi guardati in faccia, hanno stabilito che l’avrebbero provato sul campo e, se non fosse stato vero, l’avrebbero ucciso. Le SS giocavano a calcio tra di loro e in quel periodo erano rimasti in pochi, così Nando Valletti è stato chiamato a giocare una partita assieme a loro. Le SS giocavano con gli stivali e lui a piedi scalzi e, per Valletti, era iniziato il provino più importante della sua vita. Il pallone in quel caso, era come una sfera magica a celare un angolo di futuro, una speranza affidata a stralci di pelle che non ha valore, che non somiglia a niente, che non prova niente se non l’attanagliante paura di sbagliare. E, mentre palleggiava con i suoi aguzzini, la mente di Ferdinando Valletti era altrove. Scalzo e con la sua divisa addosso, esegue passaggi perfetti pensando di giocare a San Siro con i suoi compagni del Milan che sembrano dire: “ Dai Nando, passa la palla, fagli vedere cosa sai fare”. Un pallone “amaro” che ha il significato della disperata voglia di vivere e di cercare di salvare se stesso e qualche compagno. Battere le SS per salvare la propria vita da quell’inferno, in cui gli uomini erano numeri e non persone. Nel 1945 fu liberato dagli americani e portato in Svizzera, là dove a causa delle sue pessime condizioni di salute è stato ricoverato presso la Croce Rossa. Quella di Valletti è una storia raccapricciante, incredibile, che assume una connotazione disumana, un qualcosa che non ha nulla a che fare con il senso logico della vita. Ci viene in mente una frase di Giorgio Chiellini che, trovatosi in Polonia con la Nazionale Italiana assieme ai suoi compagni di squadra varcò la soglia di Auschwitz, un luogo che mette i brividi addosso e che non lascia spazio ad altri pensieri se non al dolore e alla riflessione: “ E’ stata un’esperienza toccante” disse il calciatore della Juventus, “Finché non lo vedi con i tuoi occhi, non ti accorgi delle atrocità che sono state commesse in questo luogo. Il filo spinato, le camere a gas, i block dove erano rinchiusi i prigionieri destinati al massacro. Poi a Birkenau, dove c’é la rampa lungo la quale venivano scaricati i cittadini ebrei arrivati da tutta Europa, Italia compresa. E lì, tra i binari di Birkenau, c’è stato il racconto dei testimoni che ha toccato il profondo dell’anima e commosso tutti”. I sopravvissuti dell’Olocausto Piero Terracina e Samuel Modiano descrivono Birkenau come “l’inferno dei vivi”, mentre Anna Weis ricordava i familiari “saliti in fumo e diventati cenere”, come le raccontò con perfidia un nazista del campo delle atrocità. Il calcio, dunque, è stato capace di entrare nel luogo del dolore, un esempio di trasmissibile positività umana proprio in un momento in cui certi valori sono vergognosamente calpestati. L’attualità, infatti, ci pone continue riflessioni che ci mettono a nudo di fronte all’interrogativo del significato profondo della vita, nel rispettare le diverse ideologie politiche, religiose, razziali, sessuali, che faticano a imporsi come sentimenti legati alla democrazia e al rispetto della diversità. Per questo motivo desideriamo un momento di ulteriore riflessione, di silenzio, di deferenza verso chi ha perso la vita in maniera assurda quanto atroce. La speranza che l’uomo impari dai propri marchiani errori commessi nella storia, deve essere viva, sempre. 72 anni dopo Auschwitz e a seguito di nuovi fatti di terrorismo, razzismo e di pericoloso fanatismo, ci chiediamo quale sarà il futuro del mondo. E, se da una parte ci sentiamo sconfortati al pensiero che il sacrificio di vite umane non insegni nulla all’uomo per ravvedersi, dall’altra parte desideriamo vivamente, anche attraverso la giornata della memoria, aggiornare le nostre coscienze che troppe volte davvero sembrano essere alla deriva di tutto.

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